Avere un figlio non sempre è un evento che illumina la vita della neo-mamma. Oltre alla violenza ostetrica che distrugge il ricordo emozionante del parto, esiste un altro tabù legato alla maternità. È quello delle “madri segrete”. Ma chi sono le “madri segrete”?
Sono donne che dopo il parto, non riconoscono il bimbo appena avuto. Non è mai una scelta facile. Proviene da vite difficili e piene di solitudine, da problemi economici, familiari o sociali profondi. Da violenze. Ma anche da famiglie che non ce la fanno ad accettare il pensiero di un figlio con una malformazione o disabilità.
L’ospedale Niguarda di Milano ascolta e sostiene queste donne e non le lascia sole. Si chiama “Maternità fragili” ed è portato avanti dall’Associazione per la ricerca in psicologia clinica. Lavorano lì quattro psicologhe insieme ad un’assistente sociale.
Dichiara così la coordinatrice del centro Donata Luzzati e il suo team a Repubblica. “I bambini sono sempre stati abbandonati e l’attenzione, per proteggerli giustamente, è sempre stata data a loro. Ma per farlo, bisogna allo stesso tempo aiutare anche le donne. Nessuno qui cerca di convincerle in un senso o nell’altro, se riconoscere il bambino o no sosteniamo la donna nella sua libertà di scelta, dandole tutti gli strumenti per decidere in autonomia, tutelando in questo modo lei e il nascituro”.
I casi di bimbi nati e non riconosciuti sono diminuiti negli anni, “di pari passo con il calo delle nascite”, spiegano. I dati in mano all’associazione parlano di 243 casi in Italia nel 2018, di cui 26 a Milano.
Alla porta di questo centro d’ascolto bussano soprattutto donne sole.
La psicoterapeuta Valentina Lazzarini si pronuncia a riguardo. “Capita ancora, però, di leggere di bambini lasciati in un cassonetto o in un’aiuola. Spesso le donne non sanno che si può partorire anonimamente in ospedale e ricevere le cure necessarie per sé e per il bambino. Ecco perché è importante che il tema del non riconoscimento sia diffuso”.
“Straniere che sono in Italia per lavorare e rimangono incinte, ma hanno una famiglia nel Paese d’origine. Non vogliono abortire perché non se la sentono, ma si trovano in una condizione emotiva difficilissima. E sono forzate a non riconoscere il bambino per motivi sociali e lavorativi”.
Ci sono ragazze non ancora maggiorenni che vivono la nascita di un bambino troppo presto come una vergogna, che temono il giudizio collettivo. “A volte sono le famiglie stesse che spingono al non riconoscimento, che non se ne vogliono fare carico”. E poi donne che si accorgono di essere incinte dopo mesi, quando il tempo per scegliere l’aborto non c’è più. Ma non riescono a pensarsi madri. O madri ancora una volta.
Gravidanza criptica è quello stato interessante in cui è come se il corpo negasse di aspettare un bambino. La pancia non si vede o si confonde. “Una donna è arrivata da noi all’ottavo mese, l’aveva scoperto da pochi giorni e questa notizia l’aveva sconvolta, non sapeva cosa fare”. Di figli ne aveva già avuti.
“Credeva di non riuscire a far fronte a un’altra vita”, ricordano le esperte che l’hanno aiutata innanzitutto a prenotare le visite in vista del parto che sarebbe stato di lì a breve. Rendere consapevole una donna e ascoltarla sono i capisaldi di questo centro.
“Non prendiamo posizione, questo è molto importante saperlo”. E fra le attività portate avanti da “Maternità fragili” – finanziato da Fondazione Cariplo e in convenzione con la Psicologia clinica del Niguarda – ci sono corsi per aiutare chi lavora nei reparti di maternità e gli operatori coinvolti nelle pratiche per il riconoscimento a rapportarsi a una donna che il bambino, alla fine, decide di non riconoscerlo. ”
“Loro stessi, quando succede, si trovano in grandissima difficoltà, perché sono molto formati nel favorire in tutti i modi il rapporto fra mamma e un bambino in questi casi non sanno cosa fare, a volte cercano di convincere la donna a cambiare idea”, dice Luzzati. Che chiude con un ricordo.
“Ho lavorato in una comunità per minori da zero a sei anni che venivano accolti dopo essere stati allontanati dalle proprie famiglie per decisione del tribunale. È lì che mi sono ritrovata a chiedermi insieme ai colleghi che se non sarebbe stato meglio che alcuni di questi bimbi non fossero stati riconosciuti alla nascita. Perché forse avrebbero avuto un futuro migliore”.