Il regista americano, all’anteprima italiana del film insieme all’attrice Rooney Mara, ci ha raccontato la sua versione di Millennium – Uomini che odiano le donne.
Non sarà il regista più prolifico di Hollywood, ma quando si mette dietro la macchina da presa il successo è assicurato: stiamo parlando di David Fincher, ieri a Roma per presentare il suo ultimo lavoro Millennium – Uomini che odiano le donne, nelle sale italiane dal 3 febbraio. È arrivato nella capitale con Rooney Mara, la giovane e lanciatissima attrice americana che nel film veste i panni della protagonista femminile della trilogia Lisbeth Salander (ed ha mantenuto un po’ il look dark del personaggio, stravolgendo la sua immagine di brava ragazza). All’incontro con i giornalisti, Fincher ha parlato di come lo avessero colpito i romanzi di Stieg Larsson da cui è tratto il film e dei temi difficili trattati dal regista stesso, primo fra tutti quello della violenza sulle donne.
Il libro mi ha stregato. Mentre lo leggevo ho pensato a diverse possibili interpretazioni dei personaggi di Mikael Blomkvist e di Lisbeth Salander.
È molto interessante il lavoro fatto con le foto. Alla fine abbiamo realizzato un mini-film dentro il film. Volevamo rendere veramente l’idea di quello che era successo ad Harriet (l’adolescente scomparsa negli anni ’60 su cui indaga Blomkvist), quello che girava intorno a lei. Abbiamo dedicato settimane solo per fare le foto, creando le scene appositamente per scattarle. Per le foto della parata ad esempio abbiamo girato prima le scene del film in un giorno e poi abbiamo dedicato un’altra intera giornata a scattare le foto.
Nel libro quando si parla di Lisbeth si usa sempre il termine punk. Ma cosa si intende con punk? Per me l’immagine dei punk è quella degli anni ’70, quella di persone che solo con il loro look volevano dirti “Guai a te se ti avvicini; dopo ci sarà del sangue sulla tua faccia: sarà il tuo o il mio”. La Lisbeth che vedevo io non era solo dura. È una ragazza che ha paura, che si nasconde. È sofferente e sempre molto coerente.
Lisbeth ha sicuramente un look punk: è un porcospino. Ma con il suo aspetto e il suo modo di porsi lei non vuole dire solo “stammi lontano, vai via”, ma anche “io sono immondizia”. Lisbeth è convinta di essere spazzatura, è una bambina che vive da sola da quando aveva dodici anni, in un appartamento che le ha lasciato la madre che è morta drammaticamente e della quale conserva tutte le cose dove le aveva lasciate, concedendosi solo lo spazio per il suo casco e il posacenere.
Lisbeth ha preso la decisione di vivere e di non essere mai più ferita, per questo non concede a nessuno di avvicinarla di entrare in intimità con lei. Lei esce, va nei locali, ha relazioni sessuali, porta anche gente in casa sua, ma non si apre con nessuno. In tutto il film la vediamo sorridere solo due volte. Non si fida di nessuno. L’unico di cui si fiderà sarà Blomkvist: lo trova affascinante perché è stato talmente bravo da trovarla, mentre lei fa di tutto per nascondersi. Lui le farà ritrovare la fiducia che non ha mai avuto nel genere maschile.
C’è un parallelismo ideale tra la storia di Harriet e quella di Lisbeth; è un parallelismo non dichiarato, ma che di fondo dà grande sostegno alla storia. Entrambe hanno subito violenza da parte degli uomini e hanno reagito in modi diversi. Anche la storia di Harriett è piena di sofferenza…
Volevo che questo film raccontasse la storia di due persone che si aiutano a vicenda in un momento drammatico della loro vita. Volevo analizzare il rapporto fra queste due persone da un’ottica sessuale: non sono amanti, non sono amici. Questo credo sia un aspetto che rende diverso il mio film rispetto a quello svedese. Alla fine del film Lisbeth non diventa più morbida, ma ha imparato a fidarsi di qualcuno, perché prima di incontrare Blomkvist lei non aveva mai lasciato avvicinare nessuno.