Tre donne chiamate a giudicare i padrini di Cosa nostra in Corte d’assise
Era la fine del 1985. Francesca, Maddalena e Teresa ricevono una telefonata dal palazzo di giustizia: «Signora, è stata selezionata per far parte della giuria popolare del maxiprocesso. L’aspettiamo». Quel genere di telefonata in grado di rivoluzionare la vita. Com’è riportato da Repubblica: «In realtà — racconta Teresa Cerniglia — molti convocati presentarono un certificato medico, oppure dissero che non potevano lasciare il lavoro. Qualcuno accennò pure a motivi etici: ” La mia religione — disse — mi impedisce di giudicare gli altri”».
Le tre donne decisero di accettare di far parte della corte d’assise insieme ad altri 13 palermitani. Era necessario ingaggiare oltre i sei titolari anche dei supplenti, gli imprevisti erano dietro l’angolo per un processo così difficile. Oggi quelle Francesca, Maddalena e Teresa si raccontano in un’ intensa docu-fiction che andrà in onda stasera su RaiUno, ” Io, una giudice popolare al maxiprocesso”, una produzione ” Stand by me” in collaborazione con Rai Fiction.
«Non mi aspettavo davvero di dover vivere un’esperienza simile — dice Maddalena Cucchiara — finimmo pure sotto scorta, ciò significava essere limitata nella mia libertà, ma era da mettere in conto anche questo».
Il processo nella grande aula bunker dell’Ucciardone, iniziato il 10 febbraio 1986, proiettò delle persone normali in una trincea: «Un giorno accadde una cosa impressionante — racconta Francesca Vitale — un imputato si era cucito le labbra con del filo di ferro. Un altro aveva inghiottito un chiodo di sette centimetri per far sospendere il processo. Era un modo per farci stancare, per farci spaventare».
Nella grande aula verde scalpitava il popolo di Cosa nostra per la prima volta alla sbarra grazie alla maxi istruttoria scritta dal pool guidato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: 207 detenuti, 475 imputati. Dopo essere stato arrestato, giunse lì il “Papa” Michele Greco: il padrino sempre elegante e dalla voce pacata augurò la “pace” ai giudici che entravano in camera di consiglio. Di segnali ce ne furono fin troppi in quei giorni. Francesca Vitale ricorda di quando qualcuno fece irruzione nella galleria d’arte del marito: «Portarono via 23 quadri, feci subito la denuncia, poi telefonai a Piero Grasso. Mi disse: “Te lo dovevi aspettare”. Gli risposi: ” Speravo che non avvenisse”».
Era il clima che si respirava a Palermo. Racconta ancora Vitale: «Nonostante quello che accadeva attorno a me, mi ripetevo che dovevo continuare la mia vita normalmente, come moglie e come madre ». Non era facile. Certe notti, Teresa Cerniglia ha ancora gli incubi: « Sogno alcune udienze, mi sveglio agitata».
L’ex giudice popolare ricorda di quando il pentito Vincenzo Sinagra ebbe un attimo di esitazione durante la deposizione: « Posso proseguire? – disse – Non vorrei che le signore si impressionassero». Il presidente fece cenno di proseguire. E Sinagra iniziò a raccontare le atrocità della camera della morte, dove le vittime predestinate venivano torturate, strangolate e poi sciolte nell’acido. In quei giorni, le donne giudici popolari prendevano tanti appunti. « Che poi furono utilissimi al momento della decisione in camera di consiglio», ricorda Francesca Vitale. «Avevamo una grande responsabilità. E bisognava essere giusti».
Al termine di quelle 349 udienze, il 16 dicembre 1987 arrivarono 346 condanne, 19 ergastoli, ma anche 114 assoluzioni. «La partecipazione dei giudici popolari fu esemplare», ricorda Piero Grasso, giudice a latere di quel processo presieduto da Alfonso Giordano ( nel film, uno straordinario Nino Frassica). In camera di consiglio entrò Francesca Vitale, gli altri giudici non togati che poi firmarono la sentenza furono Francesca Agnello, Maria Nunzia Catanese, Lidia Mangione, Luigi Mancuso e Renato Mazzeo.
Nella docu- fiction si racconta anche Mario Lombardo, di Cefalù, che è scomparso durante le riprese. Disse: « In quel bunker, si capì che la speranza dei palermitani onesti stava rinascendo». La speranza sostenuta soprattutto dalle donne, che sono le protagoniste assolute della docufiction: dalle teche Rai è emersa la deposizione coraggiosa di Vita Rugnetta, che pronunciò parole severe nei confronti dei mafiosi che avevano ucciso il figlio, punito perché era amico di Contorno. Sul video scorrono anche le parole di Rita Dalla Chiesa, la figlia del prefetto che faceva paura ai padrini e ai loro complici.
Il regista Francesco Micciché ha voluto mettere in risalto il ruolo delle persone comuni nella lotta alla mafia: « Questi giudici — dice — erano insegnanti, giorna-listi, casalinghe, tutti si sono ritrovati dall’oggi al domani protagonisti di un cammino significativo e sono riusciti con il loro impegno a rappresentare con successo la parte migliore della società siciliana».
È uno spunto importante, bisognerebbe riscrivere la storia dell’antimafia partendo dal ruolo straordinario di tante persone che non sono mai state ricordate tramite i giornali. Falcone ne ricorda una nell’ordinanza del maxi: è il giovane poliziotto che era di turno al corpo di guardia di Villa Pajno la sera del delitto Dalla Chiesa, fu lui ad annotare in una relazione di servizio che erano entrate delle persone nell’abitazione del prefetto. Per prendere dei lenzuoli, dissero. Ma scomparvero delle carte.
Grazie a quel giovane agente, Falcone avviò le indagini su uno dei misteri che ancora coinvolgono Palermo.
«Quei giorni sono rimasti una parte importante della mia vita — dice Francesca Vitale — la sera, durante la lunga camera di consiglio, con una mia collega passeggiavamo in un cortiletto dell’aula bunker, si vedevano le stelle».
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