La violenza sulle donne è una faccia del Male: la storia di Carmen Avellone

di Alice Marchese


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“Alla fine mi liberai di lui e di quell’inferno semplicemente perché “smisi di amarlo”, o, meglio, l’incantesimo si spezzò. E fui fortunata, perché alla sua minaccia di buttarmi a terra la porta se non gli aprivo, risposi “sto chiamando la polizia” e fini’ lì per sempre”.

Questa qui è la fine di una storia di violenza; è il racconto di Carmen Avellone, docente di canto al Brass Group.
Carmen ci conferisce una preziosa, ma dolorosissima testimonianza, di una donna le cui innumerevoli violenze l’hanno portata mettere da parte qualsiasi sentimento amorevole provato nei confronti di un “subumano”, come lei stessa lo definisce, facendo così prevalere l’amore per se stessa, proteggendosi da un pericolo che minacciava prepotentemente la sua felicità e la sua persona.

Lei si mette a nudo, e ripercorre i passi di una sofferenza lancinante qual è la violenza. Inizialmente era una vessazione di tipo psicologico. ” Se mangiavo le unghie mi guardava con odio e mi puniva non parlandomi per tutto il giorno. Se in macchina d’estate, con 40 gradi, mi voltavo dal lato del finestrino abbassato, mi apostrofava perché avevo sicuramente guardato qualche maschio (anche quando eravamo in autostrada)”.

Si sofferma su un episodio che le fece comprendere quanto tutto quello che aveva immaginato si era tramutato in un incubo dettato unicamente dalla punizione che lui doveva infliggerle per un gesto inconsulto, per un qualcosa che neanche lei stessa è mai riuscita a spiegarsi; il nodo del problema era esattamente questo: perché quello che si è verificato è così abominevole che nessun discorso pressocché razionale può anche solo spiegare quanto accaduto.

“Una sera, a cena da amici, non mi parlò più e non seppi mai il motivo, mi puni’ corteggiando una ragazza che arrivò sul tardi e a me venne il primo attacco di panico della mia vita, che se non lo conosci sei sicura che stai per morire e ti si bloccano tutte cose, gambe, mascelle, non riesci più neanche ad articolare una parola. Ero così scossa dai brividi di freddo che le mie amiche mi seppellirono sotto pellicce e cappotti, e lui neanche guardava”.

“Poi dovetti andare in bagno a fare pipì e ricordo perfettamente quando mi guardai allo specchio e ricordai: lo stesso episodio, la stessa crisi, anche se minore, l’avevo avuta qualche mese prima quando mi aveva rimproverata perché avevo “scherzato troppo” con un nostro amico. E ricollegai, e capii, e promisi a me stessa che, qualunque cosa fosse successa, il mio equilibrio psichico non gliel’avrei ceduto più. Passò di botto tutto, ma non la magia nera sotto la quale ero finita. Perché di questo io parlo. Avevo 21 anni, e poi 22 e 23 e 24 e 25. Sono stati i 4 anni più bui della mia vita, il mio medioevo. Lo amavo? Così credevo, e non riuscivo a lasciarlo mai”.

Il dramma delle violenze di questo genere è che al carnefice non basta più l’urlo, la punizione, l’umiliazione e il terrore psicologico. Subentra un altro elemento altrettanto angosciante che lascia ferite che non si rimarginano. “Poi, un giorno, arrivo’ anche la violenza fisica. Una sera, ad un concerto, lui fece il galletto con una cantante e quando gli feci notare i due pesi e le due misure, incazzandomi, mi tirò un pugno e io caddi. Davanti agli amici, alla gente incredula. Chi mi conosce sa che non mi mancano ne’ la personalità ne’ la stazza per affrontare un uomo – figuriamoci un subumano – ma se non l’hai provato non parlare, perché non sai quello che stai dicendo”.

“Un’altra volta tornammo dal Malaluna con lui che sbraitava perché la mia migliore amica era pulla (ovviamente tutte le mie amiche lo erano) e io che urlavo che non doveva permettersi. Posteggiammo sotto casa mia alle 3 di notte, allora stavo nel palazzo della piazza alla fine di via Lussemburgo. Non c’era un’anima e lui avrebbe dovuto dormire da me (i miei erano partiti). Una volta scesi dalla macchina continuammo a litigare fino a che non mi afferrò per il collo e strattonandomi mi fece volare la collanina regalatami da mio padre. A quel punto si placò un attimo e cominciammo a cercarla.

Io la vidi ma feci finta di no, la presi di nascosto, continuai a fingere di cercare mentre pian piano mi avvicinavo al portone, e a un certo punto – prese le chiavi – scattai verso la portineria. Non dimenticherò mai quel “NO!” gridatomi dietro, e i suoi passi di corsa verso di me. Io riuscii ad entrare e lo chiusi fuori. Lui cominciò a battere le mani come un pazzo sul portone di vetro e mentre mi avviavo verso le scale sentii un boato terrificante. Il portone era andato in mille pezzi per i suoi colpi, e lui si era tagliato il braccio”.

La storia proseguì per più di 4 anni. L’insegnante di canto però, si rivolge a chi pronuncia sempre quella parola e giudizio in più, non conoscendo né riflettendo, perché si crede che tutte le dinamiche siano tutte più o meno analoghe e che potevano essere gestite meglio. Perché, erroneamente, si ritiene che il controllo della situazione sia bilanciato. Senza avere nessuna idea, si colpevolizzano le donne stesse, le famiglie o la giustizia.

“E io non sono una donna debole, non sono una donna ignorante, non sono figlia di padre violento (tutt’altro), niente che possa “giustificare” che io sia stata con una merda simile anche solo per un giorno. Eppure. Non avete idea. E parlo da donna libera da sempre, emancipata da sempre, quindi non oso immaginare in certi ambienti cosa possa succedere. Io penso solo che la rivoluzione culturale che ci vorrebbe è tale che non avverrà mai. Che se bastasse una pena certa e severa, negli Stati Uniti non avrebbero più la pena di morte da anni. E a volte penso, semplicemente, che questa sia una delle tante facce del Male, che esiste da sempre e ci sarà sempre”.

Conclude dicendo “E per questo penso sempre che sarebbe bello che prima di parlare ci si fermasse a riflettere molto, e a conoscere molto”.

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