“Sono fenomeni di massa ma ancora sommersi. Se ne parla poco”. A dirlo, a proposito del sexting e del revenge porn, è Giorgia Butera, sociologa della comunicazione, scrittrice ed advocacy palermitana.
Giorgia Butera, nel corso degli anni, ha ideato e condotto 27 campagne di responsabilità sociale – che hanno avuto rilevanza internazionale – per difendere i diritti delle donne e dei bambini, in qualsiasi parte del mondo si trovino.
Difficile sintetizzare il suo impegno: dal 2014 è presidente della comunità internazionale “Sono bambina, non una sposa”. Dal 2015 è presidente di Mete Onlus e interviene al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite (Ginevra). Dal 2019 è presidente dell’Odiur, Osservatorio internazionale Diritti umani e Ricerca. Dal 2021 è direttore generale dell’Osservatorio nazionale contro il sexting, il revenge porn e i crimini digitali.
Da inizio giugno è disponibile il suo ultimo libro, “Dal sexting al revenge porn. Consapevolezza, educazione e crimine digitale”, pubblicato da Castelvecchi, che vuole essere uno strumento di prevenzione per giovani e adulti, un vademecum per le vittime, i loro familiari, educatori e insegnanti.
Le abbiamo chiesto di parlarci del sexting e del revenge porn ma anche del campo di attività di Mete Onlus e della nascita del suo interesse per le varie tematiche delle quali si occupa.
“L’advocacy – premette Butera – è una figura riconosciuta a livello internazionale che mette in atto campagne di educazione e responsabilità sociale tramite buone pratiche.
Il compito dell’advocacy consiste nel ‘portare in giro’ campagne di sensibilizzazione, parlare delle problematiche, canalizzare su di esse l’attenzione dell’opinione pubblica, delle istituzioni, dei mezzi di informazione. E’ un ruolo anche faticoso, e le strade da percorrere non sempre sono semplici.
Ho iniziato a lavorare da giovanissima. Per molto tempo, a partire dalla fine degli anni Novanta, mi sono occupata di comunicazione sportiva in collaborazione con Federcalcio. Per me anche lo sport ha una rilevante funzione sociale e di inclusione, ed è proprio l’inclusione la mia finalità.
Ma ho sempre guardato oltre i nostri confini nazionali, soprattutto a quello che accadeva alle donne.
Nel settembre 2014 ho scritto un testo dal titolo “Per quanto mi riguarda, ho fatto la mia scelta”: è una frase celebre di Wangari Maathai, prima donna africana a ricevere il Premio Nobel per la Pace.
E’ un libro sulle donne e i luoghi dove i diritti umani femminili vengono violati. Una sorta di fotografia sociologica sulle disumanità praticate sulle donne nel mondo.
In quel momento era arrivata alla ribalta delle cronache internazionali la storia di una bambina yemenita morta dopo la prima notte di nozze a seguito delle gravi lesioni riportate durante il primo rapporto sessuale. Era una sposa bambina, costretta a diventare la moglie di un uomo di 42 anni. Non posso fare a meno di pensare che se fossi nata in qualche altra parte del mondo sarei stata una sposa bambina anche io. Ho avuto infatti il mio primo ciclo mestruale a 8 anni e mezzo…
Ho deciso che mi sarei occupata di questa tematica e dei matrimoni precoci e forzati e ho inviato il mio testo all’Onu. Tre giorni dopo del mio testo si parlava sul giornale dell’Onu. Ho compreso che bisognava realizzare una campagna e da lì è partito il mio impegno per le donne di tutto il mondo. Nel febbraio del 2015 nasceva Mete Onlus. Abbiamo deciso di portare la campagna nelle scuole.
Poi, sono nate altre campagne, tutte legate tra loro. Affrontano i temi della schiavitù, che può essere sentimentale, emotiva, sessuale e domestica”.
Raggiungiamo Giorgia Butera al telefono mentre è impegnata in una di quelle che lei chiama “le giornate per gli altri”. Sta acquistando due porzioni di riso da portare ad un ragazzo africano, che segue da anni, ricoverato in ospedale per tubercolosi. Dopo, ci dice, incontrerà l’avvocato di Mete per discutere dell’assistenza da prestare ad una donna di sua conoscenza vittima di violenza e stalking. “Sono stata per anni – dice – una volontaria di Emergency e ho avuto il privilegio di conoscere Gino Strada e partecipare a delle conferenze con lui. Ho sempre voluto dedicarmi agli altri, e trascorro alcuni giorni così: incontro persone, soprattutto donne e immigrati, che aiuto ad ottenere documenti, permessi di soggiorno, etc. Essere utile agli altri è un obiettivo che coltivo sin da ragazzina, e farlo mi rende felice”.
Ma torniamo al sexing e al revenge porn che avvengono in rete. “Io – tiene a precisare Butera – non demonizzo affatto internet, però bisogna farne un uso corretto. Tante persone, tra l’altro, seguono le attività di Mete attraverso la rete. Non dimenticherò mai un incontro avvenuto in una scuola a Corleone.
Alcune alunne, che mi conoscevano proprio attraverso la rete, avevano chiesto alle loro insegnanti di invitarmi. Si parlava di sovraesposizione e di immagini, argomento che io conosco bene, perché narro attraverso immagini. Durante l’incontro ho capito che c’era dell’altro, delle cose non dette.
Ho chiesto alle ragazze quante di loro avessero inviato tramite la rete foto e video a sfondo sessuale.
In quel momento l’atmosfera è cambiata. Ho percepito reazioni emotive e disagi delle ragazze.
Ho visto imbarazzo, occhi che si abbassavano e mani passate tra i capelli nervosamente.
Ho deciso di mettere in atto una campagna su sexting e revenge porn e sulla consapevolezza, che è nata in maniera immediata e naturale, dal mio monitoraggio ‘umano’ e diretto.
L’11 ottobre ricorre la Giornata mondiale delle Bambine e Ragazze. Tre giorni prima ho contattato la segreteria dell’allora assessore all’Istruzione della Regione siciliana, Roberto Lagalla, chiedendo se il manifesto realizzato poteva essere introdotto nelle scuole. Ho riscontrato grande sensibilità da parte delle istituzioni. La campagna, proprio l’11 ottobre, arrivò negli ingressi delle scuole.
In un istituto di Sciacca misero il manifesto in tutte le classi. In una fase successiva, grazie alla collaborazione con Federfarma, arrivò nelle 19mila farmacie italiane. Molte persone contattarono Mete chiedendo aiuto. Tra loro una donna di 46 anni. Inizialmente disse che il problema riguardava una sua amica che non sapeva cosa fare. Poi, durante la nostra conversazione, scoppiò a piangere confessando che la vittima del revenge porn era lei. La donna e il suo ex compagno lavoravano nello stesso ufficio. Lei si rese conto che le sue immagini intime erano state diffuse dall’ex proprio in ufficio attraverso la rete. Un giorno arrivò sul posto di lavoro e venne derisa dai colleghi, anche donne, perché spesso, purtroppo, non scatta solidarietà. Ebbe allora la certezza di essere vittima di revenge porn”.
Ma quando inizia invece il sexting? La risposta arriva immediata ed è amara: “E’, come il revenge porn, un fenomeno molto più complesso di quanto si pensi. Noi di Mete abbiamo appreso dagli adolescenti e preadolescenti che il sexting, cioè l’invio di messaggi, video, e immagini sessualmente espliciti attraverso internet, inizia anche intorno ai 10 anni. Avviene facendo uso delle moderne applicazioni e i social, molto su TikTok e Instagram. In merito al sesso virtuale bisogna fare molta attenzione, perché può accadere che ragazzine e ragazzini vengano agganciati dai cosiddetti sex offender.
La cosa più difficile consiste nel far capire a bambini e ragazzini cos’è il sexting. Molti di loro non lo vivono come un problema, pur essendone vittime.
Tempo fa, durante un incontro, tenutosi in una scuola, un ragazzino mi ha confidato di aver ricevuto tramite web la chiamata di un uomo che si stava masturbando. Ma per questo ragazzino, parlare con adulti, significava essere a sua volta adulto, lo faceva sentire importante.
A determinare questo stato di cose ha contribuito pesantemente il social network OnlyFans.
Molti preadolescenti sognano di essere su OnlyFans, che nel loro immaginario equivale a diventare apprezzati, riconosciuti, famosi, guadagnare tanto denaro.
Ci è capitato di seguire il caso di una ragazzina il cui video era stato visto da un parente. L’uomo inizialmente, dopo averla riconosciuta, sperava di sbagliarsi, e che non fosse lei. Decideva pertanto di contattare i genitori della ragazzina segnalando il video. I genitori constatavano con grande smarrimento che era la loro figlia. Abbiamo innescato i meccanismi del caso: denuncia alla polizia postale, assistenza legale, supporto psicologico per la persona offesa e per tutto il nucleo familiare che viene coinvolto e si ritrova a vivere un incubo.
Ritengo il sexting, nel caso dei preadolescenti, una aberrazione. Ho visto in rete immagini che mi hanno provocato un dolore enorme. E nelle scuole ho scoperto che ragazzi e ragazze, molto giovani, ricevono foto e video dai sex offender spesso, come se fosse una cosa normale.
Ecco, è su questo concetto di ‘normalità’ che bisogna lavorare parecchio con una corretta informazione. Ricordando, soprattutto, che diventa complice di reato anche chi possiede una foto o video a sfondo sessuale e non fa nulla, non segnala o non denuncia”.
E ancora: “In occasione di un altro incontro, in una scuola media, con studenti quindi molto giovani, un’insegnante chiese loro quanti conoscessero Omegle, un sito web di chat online che permette agli utenti di comunicare con persone da tutto il mondo. Tutti lo conoscevano tranne noi adulti.
Ho deciso di capirne di più con l’avvocato di Mete e di studiare il sito. Ci siamo collegati un pomeriggio, alle 17 circa. Già la seconda schermata del sito presentava messaggi esplicitamente sessuali. Omegle riporta il numero di utenti connessi in ogni momento: ci ha turbato apprendere che erano 35mila. E le conversazioni, come confermato da ragazzini che seguiamo, avvengono anche tra adulti e minori. Abbiamo scoperto un mondo peggiore di quanto immaginavamo. E abbiamo capito, che per arginare questi fenomeni, sono necessari anche incontri con i genitori e le comunità adulte. Inoltre, siamo stati assaliti dal dubbio lecito che non ci sia ‘connessione’ tra preadolescenti e adolescenti e le loro famiglie. L’universo di valori delle famiglie sembra quasi sgretolarsi”.
Serve senza dubbio maggiore consapevolezza rispetto ai comportamenti in rete. Come si fa ad aumentarla? “Ho ricevuto nel tempo – constata Butera – anche obiezioni al mio lavoro. Alcuni mi hanno detto: “Ma cosa ti importa se la gente manda foto o video intimi?”. A me importa perché soprattutto i più giovani, devono sapere che inviare foto e/o video non è un comportamento sicuro.
E’ chiaro che ogni adulto fa ciò che vuole, ma io dico che serve consapevolezza, cioè capire quali conseguenze può avere ogni azione in rete. I giovani spesso non sono consapevoli.
E chi possiede questo materiale, che sia un ex partner, un amico o addirittura uno sconosciuto, spesso attua una vendetta immediata diffondendolo in rete.
Il revenge porn è colpire nell’immediatezza una persona senza farsi male. Perché se io assesto a qualcuno un ceffone forse mi faccio male alla mano, se diffondo foto e video no.
Basta averli sul proprio telefono – e tutti possiedono un telefono – e diffondere questi contenuti.
Per la persona vittima di revenge porn il danno è enorme. Ripeto: sexting e revenge porn sono fenomeni di massa ma ancora sommersi. Chi vuole vendicarsi di una persona o deriderla, crede di poter fare liberamente ciò che vuole con quelle immagini intime. Forse non c’è ancora la giusta percezione di questi fenomeni. Io purtroppo credo, e lo dico con profonda tristezza, che tra due o tre anni la rete internet sarà piena di revenge porn, che è in aumento.
Bisogna continuare a parlarne e focalizzare l’attenzione su queste problematiche.
O meglio, bisogna far capire che c’è un problema. Bisogna parlarne nelle scuole, che hanno un ruolo educativo fondamentale e imprescindibile. Bisogna parlarne tramite i media, e qui faccio appello ai giornalisti e al mondo dell’informazione. Soltanto la diffusione della conoscenza, del sapere, delle giuste informazioni, potranno aiutarci a far capire a tutti che il sexting è pericoloso ed il revenge porn un crimine gravissimo e odioso”.
Spesso si crede che tutto possa risolversi con la denuncia alle forze dell’ordine. Non è così e Butera lo conferma: “Per le vittime subentra un senso di vergogna e sconfitta che appare insormontabile e che di fatto lo è. Perché la rete non dimentica e non perdona. Anche quando la foto o il video vengono rintracciati dalla polizia postale ed eliminati, non è detto che siano fuori dalla rete. Se qualcuno ha scaricato, come accade, quei materiali, e li invia ad altri utenti, foto e video tornano in rete. Servono tanta informazione e sensibilizzazione. Ma poi constato che viviamo in una società basata sull’apparenza, dove i media esaltano e fanno diventare celebrità persone senza meriti reali. Persone che per l’appunto appaiono e guadagnano di conseguenza, con vite a prima vista sfarzose ed invidiabili. Ecco che il nostro lavoro di prevenzione diventa molto difficile e complicato”.
In prevalenza le vittime del revenge porn sono donne. E’ un fenomeno definibile trasversale, che riguarda donne di tutte le età.
“Il revenge porn – conclude Butera – è una forma di violenza. Alle donne in generale consiglio di imparare ad amarsi realmente. Ho conosciuto tante donne vittime di forme di violenza, le più disparate. A loro dico che ogni gesto violento ricevuto non è mai un raptus o un momento e basta.
La violenza è un percorso, e quando arriva bisogna andare via. Le donne non devono pensare di poter salvare o cambiare un uomo che non nutre sentimenti buoni o di poter rivestire il ruolo di ‘crocerossina’. Io parlo sempre di amore e di bellezza. E alle donne voglio ribadire di amarsi ed essere felici. Ma purtroppo nei loro confronti sta emergendo sempre più una disumanità preoccupante. Basti pensare alle discriminazioni e violenze che avvengono in Iran.
Non a caso Mete sta lavorando anche per le donne iraniane”.