Saman Abbass, i genitori si difendono in tribunale: “Non siamo stati noi”

di Redazione
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Il 30 aprile 2021 sembrava un giorno come tanti nella casa di Saman Abbas, una diciottenne pachistana che viveva con la famiglia a Novellara, in provincia di Reggio Emilia.

Secondo la madre, Nazia Shaheen, quel giorno Saman aveva fatto colazione con il fratello, si era tinta i capelli con il suo aiuto e aveva persino chiesto un bacio, segno di un legame apparentemente sereno. Ma quella stessa sera, la giovane sarebbe scomparsa, inghiottita dal buio delle campagne emiliane, in un caso che ha sconvolto l’Italia e riacceso il dibattito sugli omicidi d’onore. Oggi, a distanza di quasi quattro anni, il processo d’appello alla Corte di Assise di Bologna cerca di fare luce su una vicenda ancora avvolta da ombre e contraddizioni.

Nazia Shaheen, estradata dal Pakistan nell’estate del 2024 e per la prima volta presente in aula, ha offerto una versione dettagliata di quella giornata. “Ringrazio il presidente che ha evitato la presenza delle telecamere, mi sento sotto pressione e soffro di depressione, non sarà facile per me”, ha esordito davanti ai giudici. La donna ha descritto una routine domestica interrotta da discussioni: Saman voleva tornare in comunità, dove era stata accolta nel 2020 dopo aver denunciato i genitori per un matrimonio forzato che rifiutava. “Ogni volta che menzionava l’intento di tornare in comunità io mi sentivo male e uscivo di casa per poter respirare”, ha raccontato Nazia.

La notte della scomparsa

La narrazione di Nazia culmina nella drammatica serata del 30 aprile. “Siamo usciti insieme, ho visto Saman che si stava incamminando molto velocemente. Poi l’ho vista sparire”, ha dichiarato, con la voce rotta dal pianto. Secondo la madre, lei e il marito Shabbar Abbas avrebbero implorato la figlia di non andarsene, arrivando persino a “mettersi ai suoi piedi” e a offrirle un giuramento sul Corano pur di trattenerla. “Dalle telecamere si vede, ma sarebbe stato bello se ci fosse stata la registrazione delle voci, perché continuamente la pregavamo di non andare”, ha aggiunto, suggerendo che le immagini di videosorveglianza – elemento chiave dell’accusa – non raccontino tutta la storia.

Eppure, quella notte Saman non tornò più. Il giorno seguente, i genitori partirono per il Pakistan, un viaggio che Nazia definisce “programmato” e noto ai figli. “Ho passato la notte piangendo, la mattina dopo partimmo”, ha ricordato. Solo due settimane dopo, già in Pakistan, una visita avrebbe portato la notizia devastante: Saman era scomparsa, e poi morta. “Non ci rimaneva altro che piangere”, ha concluso, insistendo sulla propria innocenza: “Se avessi visto qualcosa mi sarei battuta per fermare qualsiasi tipo di aggressione nei suoi confronti, perché sono mamma”.

La versione del padre

Anche Shabbar Abbas, condannato all’ergastolo insieme alla moglie in primo grado, ha preso la parola in aula, offrendo una prospettiva diversa. “Vorrei precisare che non siamo stati noi genitori ad uccidere nostra figlia. Abbiamo fatto molta fatica a crescere i nostri figli. Provo un forte dolore e lo avrò per tutta la vita”, ha dichiarato, respingendo le accuse di omicidio premeditato. Ma la sua testimonianza si spinge oltre: “Stando alle dichiarazioni di Danish, che ha detto che erano presenti lui e gli altri due, penso siano stati loro tre”. Con queste parole, Shabbar punta il dito contro lo zio della ragazza, Danish Hasnain, condannato a 14 anni, e i cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, assolti in primo grado.

La tesi di Shabbar si scontra con quella dell’accusa, che lo vede come uno degli artefici del delitto, insieme alla moglie. Secondo i pm, Saman sarebbe stata uccisa per aver rifiutato un matrimonio combinato in Pakistan e per la sua relazione con il fidanzato Saqib, osteggiata dalla famiglia. Le immagini delle telecamere, che mostrano cinque persone uscire di casa con pale e attrezzi per poi tornare ore dopo, sono considerate una prova schiacciante. Eppure, Shabbar insiste: “Noi preghiamo solo di poter rivedere nostro figlio, per il resto è come se fossimo già morti”.

Le contraddizioni del fratello e il ruolo della famiglia

Un altro tassello del puzzle emerge dalla testimonianza del fratello minore di Saman, che all’epoca dei fatti aveva 16 anni. Nelle udienze precedenti, il ragazzo aveva accusato i familiari, parlando di un incontro preparatorio nei giorni precedenti al delitto. Ma Nazia lo contraddice con fermezza: “Non è vero che ci siamo radunati per parlare di Saman, non ci siamo trovati a casa nostra. Non c’è stato nessun incontro, neanche dei cugini”. E ancora: “Mio figlio ha detto che la sera del 30 aprile c’era Danish a casa nostra, ma non è vero”. La Corte, che il 6 marzo 2025 ascolterà nuovamente il giovane come testimone, dovrà valutare la credibilità di queste versioni contrastanti.

Il fratello, oggi maggiorenne, ha espresso il desiderio di vedere i genitori, ma non si è presentato all’ultima udienza. “Vorrei vedere mio figlio, sto molto male. Mi sono arrivate diverse lettere in cui chiede di vedermi”, ha detto Nazia, ricevendo una risposta cauta dal presidente della Corte, Domenico Stigliano: “Serve una richiesta formale, se arriva, dopo il parere della Procura, la valutiamo”.

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